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Schopenhauer, Arthur.

Filosofo tedesco. Dopo aver compiuto numerosi viaggi in Europa con i genitori, nel 1805, alla morte del padre, si stabilì in Germania. Seguì le lezioni di G.E. Schulze a Gottinga (1809-11) e di Fichte a Berlino (1811-12), laureandosi a Jena nel 1813 con lo scritto Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente. Trasferitosi a Dresda, nel 1816 scrisse il saggio Sulla vista e i colori; nel 1819 pubblicò il suo capolavoro, Il mondo come volontà e rappresentazione, che non ebbe, però, grande risonanza nel mondo accademico. Ottenuta l'abilitazione all'insegnamento universitario ma non la cattedra, negli anni Venti tenne corsi liberi a Berlino, che non ebbero particolare successo. Convinto di essere vittima di una congiura ordita ai suoi danni dalla scuola idealista, nel 1831 rinunciò all'insegnamento e si ritirò a Francoforte; lì pubblicò Sulla volontà della natura (1836), I due problemi fondamentali dell'etica (1841) e Parerga e paralipomena (1851), con cui raggiunse una certa notorietà. S. parte da premesse kantiane, accettando e, per molti versi, radicalizzando la distinzione tra fenomeno e noumeno. Dal primo punto di vista, il mondo si configura come rappresentazione ed è, dunque, frutto dell'elaborazione categoriale umana, che ordina attraverso le forme a priori di causalità, spazio e tempo ciò che di per sé sarebbe assolutamente caotico. Considerato nel suo aspetto noumenico, il mondo si presenta, invece, come volontà, ovvero come un impulso cieco e irrazionale non sottoposto a ragioni causali (ma non per questo, a differenza di I. Kant, inconoscibile), tendente sic et simpliciter all'autoaffermazione. La volontà costituisce il nocciolo di tutta la realtà e, se da un lato alimenta la vita e il movimento di tutti gli esseri, dall'altra diviene anche la causa prima della loro infelicità, dal momento che non riesce mai a realizzarsi compiutamente. Ciò si rivela in tutta la sua drammaticità nell'uomo, la cui esistenza oscilla tra il dolore (che consegue dal percepirsi, più di qualunque altro essere, come essenzialmente manchevole) e la noia (che gli deriva dai momentanei appagamenti dei desideri della volontà): il problema fondamentale per l'uomo consiste, allora, nel trovare il modo per sfuggire a questa situazione e la sua soluzione può venire solo dalla negazione della volontà. Tale condizione, da S. designata col termine di nolontà, si configura come un'assoluta quiete dell'anima, una soppressione totale della volontà, e si realizza non tanto con il suicidio (che S. vede piuttosto come un'affermazione della volontà che, comunque, sopprimerebbe solo la volontà individuale), quanto, piuttosto, prendendo le distanze dall'esistenza fenomenica. Questa presa di distanza, che può compiersi in maniera effimera nell'arte (in quanto conoscenza di essenze e, dunque, apertura di una dimensione transfenomenica) e nella moralità (in quanto superamento dell'egoismo), si attua nella sua forma più perfetta con l'ascesi e le scelte che questa comporta (castità, rassegnazione, indifferenza, sacrificio) e conduce, in ultima analisi, l'uomo alla percezione del suo essere proiettato non più verso la fruizione dell'Essere (come avveniva nelle grandi filosofie idealiste del XIX sec.), ma verso la contemplazione del Nulla (Danzica 1788 - Francoforte sul Meno 1860).